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racconti brevi

Fantasie di una mente che non mente
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Quando la incontrai non ero che un giovane distratto da superficialità, bicipiti molto sviluppati, primi segni sul viso di un’età che non pensavo potesse crescere.

 La verità che celava ogni giorno la mia quotidianità, ritornava a galla ogni sera, nei richiami di un padre attento e scrupoloso, di una madre fiera e fragile e di un ego represso ma consapevole.

 La ragione delle cose avanzava ed io la scoprii quel giorno.

Gli eventi funesti non si amano, si respingono o almeno ci si prova, ma imperterriti ritornano o forse non vanno mai via.

Mori' all'improvviso, in una notte che non ricordo, un blu troppo alto e con troppe stelle, in un certo giorno della settimana che come tutti gli altri avevo trascorso insieme a lui.

 Giorni strani, giorni e paradossi, fulmini e cornetti al cioccolato, gente, tanta gente, questo e' quello che ricordo.

La mia mente non elaboro' colori e immagini a fuoco per molto tempo.

Tuttavia, senza speranza e senza ragionamento, non passo' inosservato un solo attimo di quei giorni.

 Alzai la testa e mi ritrovai grande, troppo grande!

Avevo gli anni del piacere, dei grandi sguardi titubanti, del "come si fa?", ma il ricordo era saldo, la presenza era reale.

Una notte, al mare, si cantava da un po', si beveva da troppo, si girava e rigirava, finalmente fui felice di riveder le stelle, quelle stelle che mi tradirono gia' una volta, era finalmente passata la paura, la maledetta paura di alzare lo sguardo. 

Il mezzo sigaro

 

Tutto inizio' senza una vera musa. Anche se l'aria che respiravo mi dava motivo di crederlo. Scrivere e' stato piu' facile di quanto mi avevano raccontato.

 Un giorno vidi un uomo sulla cinquantina chinato su un barile, avete presente quei barili pancia piatta, con rigonfiamenti lineari a intervalli di poche decine di centimetri in senso orizzontale? Ecco, uno di quelli.

Teneva con due dita della mano sinistra un sigaro, era spento e pensai "ma lo fuma davvero o e' sempre lo stesso da giorni?". Ero stranamente incuriosito,mi avvicinai, schivandolo voltai lo sguardo e mi accorsi che fissava un sassolino a terra, occhi di vena piena, denti bianchissimi, un sorriso quasi sarcastico. Non vedevo l'altra mano, feci un passo e la notai, mi sembro' il pendolo di un orologio da muro,talmente calava perpendicolare al busto.

 Un po' impaurito e con aria di superiorita' ma di rispetto,chiesi : "ha bisogno di qualcosa?posso aiutarla?".

Non si mosse. Passarono trenta o quaranta secondi prima che alzasse lo sguardo e mi dedicasse apparente attenzione. Gli occhi sembravano meno infuocati adesso che potevo fissarli meglio, il mezzo sigaro, tozzo come il tronco di un ulivo secolare, sempre nelle due dita.

Insistetti: "scusi se mi permetto,ma volevo chiederle come mai tiene un sigaro spento tra le dita,lo fuma o le piace solo metterlo ogni tanto tra le labbra?".

Un piccolo balzo lo fece apparire nella sua stazza, grandi spalle, pantaloni blu scuro, quel blu tendente al buio, in voga negli anni ottanta, scarpe di tela, capelli con un riporto non evidente, mani consumate da chissa' quale mestiere.

 Un colpo di tosse, come per schiarirsi la voce: "ti piace parlare della tua vita agli altri?", chiese con tono pacato ma sapendo di aver posto un quesito fuorviante. "Beh,di solito sono molto spontaneo e spesso non mi inibisco davanti agli altri nel parlare dei fatti miei". riprese: "un tempo,provai a scrivere di me,mi misi davanti ad un foglio bianco, vi rimasi tutta la notte, ma non ricavai nulla".

Lo bloccai :" scusi,ma cosa c'entra tutto questo con le mie domande?".

Continuo' senza darmi peso:"..c'ho provato!e' stato un buco nell'acqua ma ho capito che scrivere non era piu' alla mia portata e da allora ho iniziato a tenere il sigaro tra le dita".

Io, un po' titubante e permaloso:"scusi,continuo a non capire!non fu tagliato per lo scrivere e comincio' a fumare?".

 "Quella sera fu l'ultima volta che ne tenni tra le dita uno acceso,la vena poetica era finita perche' si era spenta anche quella tossica".

 Lo guardai con aria dubbiosa ma soddisfatta, sorrisi, accesi la mia marlboro e svanii come la sua vena..

 

 

Lo smontatore di sogni

 

Avevano vent'anni o poco piu', di questo ne son certo. Non erano mai stati piu' lontani di un palmo ma si persero di vista per diverso tempo.

 Lui, cercatore di tesori nascosti negli abissi del cielo, lei, bella come l’immensità del cielo. "Finalmente posso parlarti di nuovo!" , esplose col suo timbro. "Ciao!" , tentennò sorpresa e sorridente.

A volte, la bellezza e' difficile da spiegare, come e' difficile la paura di aprire il proprio Essere e scalare la montagna della timidezza.

Lui fece il primo passo, non si spiegava come, ma lo fece, sara' stata la voglia , accumulata nel tempo, di quella creatura, il ricordo mai appassito, il pensiero che era lei cio' che voleva.

Ricordo che li vidi su una panchina di legno e con alle spalle uno splendido scorcio, non ricordo il luogo, ne l'ora, ma ho nitidi i loro occhi, la loro dolce passione.

Lui , che del rimorso e dei rimpianti non sapeva cosa farsene, tiro' fuori quello che non poteva piu'  trattenere dentro: "Ti inseguo da una vita, sei stata sempre irraggiungibile, ho voglia di baciarti!". Un po' sconvolta, un po' sorpresa ma con quel sorriso ricco di luce che ancora oggi la determina, rispose coi suoi baci, non parlo' mai, era li per quel momento, aspettava solo quello.

Quando lei sorrideva irradiava il volto di lui.

Quando lui parlava di lei il suo cuore prendeva ritmo.

Non era il tempo di calcoli ne di ulteriori pensieri, l'incoscienza e l'amore sono sinonimi sulla stessa riga,  possono essere rimossi se disturbano la lettura o lasciati se il suono e' lieve.

Di baci se ne scambiarono molti, la vita li ama e loro amano l'altro.

Quanto tempo rimasero insieme? Forse ancora oggi, non sono uno smontatore di sogni.

 

Batman

 

Il miglior modo di cadere e' sapere che hai la forza per risalire. Ma poi c'e' davvero un "miglior" modo di cadere? Non sarebbe meglio rimanere saldi ?Purtroppo non e' consuetudine vivere legati al Mondo.

Come ogni domenica, Luigi alzava la vecchia serranda, cigolante ma di "ottima fattura" , andava in cucina, preparava la moka e  accendeva la tv.

Sua moglie, donna quadrata, che lavorava 6/7 sapeva di poter godere di qualche ora in piu' di riposo e per questo si lasciava andare nel giorno del Signore.

"Passa la mano qui e senti come cresce!" Esclamo' assonnata e sorridente.

"Lo sento. E' il mio cuore o il suo?"

Avevano finalmente realizzato un sogno, inseguito da tempo, arrivato nel peggiore dei momenti. Scarso lavoro per lui, troppi sacrifici per lei.

Si videro improvvisamente soli, sposati in fretta, con grandi aspettative ma pochi progetti, col desiderio di un nuovo inquilino e la problematica di lui.

Quando la situazione si fece dura, ecco la notizia:" ce l'abbiamo fatta! Sono al terzo mese!"

Lo stupore misto al sapore agro della realta' cui andavano incontro fece pesare quel momento come un macigno, ma si sa, reagire di cuore e di palle a volte aiuta, stimola per lo meno.

"Lo teniamo! E' il frutto del desiderio, del nostro grande desiderio di essere in tre!" La consolo' un Luigi pieno di passione e ritrovato vigore.

Di domenica uscivano sempre tardi, tra le undici e mezzogiorno, rilassati e sorridenti: pancione di lei in vista, orgoglio di lui in pectore.

"Cosa faremo adesso? Cosa ci inventeremo?" Chiese lei dalla panchina.

"Non aver paura. Ho le idee chiare." Rispose Luigi d'istinto come un gendarme che ha sempre un piano d'azione pronto.

 Continuo': " ricordi la paura di rimanere sola che avevi? Ed io di diventar nessuno? Ti pare poco aver abbattuto questi muri? Se fossi stato un super eroe avrei salvato prima te da cio' che non vuoi, avrei dato un volto ad ogni mia speranza, imposto il sorriso ad ogni muso lungo, avrei gia' cambiato un bel po' di mondo. Non sono un super eroe. Ho un lavoro normale, faro' di piu', posso farlo. Nell'umilta' di un amore si trova sempre la soluzione".

Non sono mai stato del tutto convinto che l'amore superi ogni ostacolo o che le diaboliche problematiche da essa possano essere sopite...ma da sempre e per sempre...credero' nei super eroi.

 

Grand Tree 

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Muoveva le mani con rara eleganza, ruotava la stanza intorno a lei,una lacrima le cadde dal viso.

 Non era mai partita e non era mai arrivata ma la valigia era disfatta, il trucco colava, lo scenario intorno una novita' . Sembrava spaventata.

"Cosa ti turba?", chiese l'uomo che non conosceva.

" Ho trovato l'anello di congiunzione tra la mia vita e il mare. Vorrei volare, ho due larghe ali. Sai come si vola?".

Un colpo di vento ad una finestra, il battente si ruppe, i capelli si agitarono con disordine.

 "Non so come insegnarlo ma so farlo. Era un mistero anche per me. Poi, a ridosso del burrone, mi lanciai, non caddi mai piu'! E' stato dolce".

Calarono nella hall dell'albergo, senza neanche uno sguardo allo specchio vicino alla porta, il trucco colava ancora sul viso.

Quando lui le prese la mano, lei, non oppose resistenza, si lascio' trasportare, come se il burrone fosse li, dietro la porta girevole.

 "Non ho paura, ma non lasciare la mia mano, non so come si fa, ricorda" , avverti' lei con voce tenue.

Sempre con la paura di non saper come fare, sempre col terrore di veder colare il trucco.

Salirono sul taxi, lui si volto' indietro, vide il buio, guardo' oltre il parabrezza, vide una luce accecante.

"Grand Tree. Please" chiesero all'autista.

Dopo dieci minuti raggiunsero la meta, in tutta fretta misero i piedi su quella nuova terra, la luce era sempre piu' forte, la fonte era nascosta, un albero negava la vista. 

"Adesso non ho paura. Il cuore pulsa forte, ma non ho paura", disse lei con un filo di voce, rassicurata e serena.

Continuarono a tenersi per mano.

"Le tue ali sono spiegate, adesso le vedo. Adesso saprai come fare", lui ruppe il silenzio.

Un attimo di tremore, titubanza, lampi di vita passata l'attraversarono in pieno petto.

 Ecco! La luce divenne fioca, l'albero sembro' spostarsi, le mani sempre piu' strette.

Volarono via.

Si strinsero in un corpo solo.

Passarono pochi attimi, la luce torno' ad abbagliare, la fonte si nascose. In lontananza si videro svanire le due ali.

Era un giorno di pioggia, ma dalla mia finestra godetti della scena in maniera nitida e posso confermare: non ebbe paura, seppe come fare. Volo' via.

 

Desiderio oscuro

 

Quella sera la desiderai come non mai!

Spesso mi chiedevo che forma avesse, se bussa, se il momento e' preceduto da un suono.

La desideravo, la volevo in maniera ardente!

Passo' anche quella notte, nessuno busso', nessun suono udii, insomma mi svegliai col solito amaro in bocca.

La vita una volta mi disse:" se apri quella porta di cui tu solo ne possiedi le chiavi, puoi trovarci oltre , tutto cio' che desideri!"

Per quasi trent'anni cercai di girar quelle chiavi, rimasi sull'uscio ore ed ore, giorni, anni! Ma mai nessun varco, mai un "clic" che facesse intuire di aver trovato la chiave giusta.

Arrivarono altre notti come quelle, nessuna fu quella giusta.

Un mattino, che il sole riempiva d'oro, feci quello che ero solito immaginare: non andare a lavoro, dormire e riposare.

Mi sentivo finalmente in pace con me stesso, nonostante la banalita' apparente del momento. Era una sensazione strana, mai vissuta prima.

Mi fermai col pensiero alla notte in cui la desideravo, ricostruii il momento, vissi nuovamente le stesse sensazioni. Al contrario pero' non avevo lo stesso desiderio ardente. Era come sopito, appagato, scomparso.

Finalmente la luce eterna mi aveva acceso la strada.

 

Il Signor Freud (e la rivoluzione)

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Gli occhi tiepidi di sonno,le orecchie tappate,le gambe intorpidite.Appena sveglio, così gli parve, vide quella brutta e logora infermiera.Aveva una siringa in mano.

- Stia fermo. Non provi ad agitarsi, potrebbe spezzare l’ago

- Ficcatelo in culo l’ago

- Vedo che è di buon umore stamane, Signor Freud – sogghignò l’infermiera

 -Come tutte le mattine che lei viene qui – concluse il Signor Freud girandosi dall’altra parte del letto.

La clinica era un luogo oscuro.Le grate dell’unica finestra erano coperte da una tenda opaca, un marchio che il Signor Freud si volle imprimere sul braccio destro qualche sera prima.

Lo aveva fatto con la punta d’un ferraccio di sostegno strappato quasi a morsi dalla testa del letto in cui adesso dimorava.Per questo motivo, le dosi di tranquillanti erano state raddoppiate.

Dormiva tutto il giorno, tranne quando passava l’infermiera o il primario per i rituali di controllo che si addicevano al luogo oscuro.Il primario, il professor Goldrake, chiese un giorno:

- Perché? Signor Freud, perché ha deciso di restare qui da noi? Perché non si arrende? Mi da delle amare delusioni.Non ha voglia di andarsene via da questo posto , da questa camera senza vista e tornare alla sua vita di pane, burro e caviale? – il tono del primario era leggero come una mongolfiera.

Il Signor Freud, stordito e immobilizzato, lo fissava e sembrava non capire, ma d’un tratto si alzò a metà, con uno scatto riuscì a poggiarsi con le spalle all’arcata del letto e con un lieve filo di voce, sussurrò:

- Lei è bravo! Sa parlare! Lei, professor Goldrake è stato sempre il più bravo di tutti. Lo si sapeva nel suo ambiente. Crede di utilizzare a modo la parola “delusione”, ma cosa ne sa del provarla? È convinto di poter insultare i suoi pazienti con la tranquilla e inconcludente romanzina invitante. È solo uno stronzo come tutti gli altri, lei professor Goldrake!Il viso del professore rimase impassibile e un lieve sorriso da gatto in attesa gli si era stampato addosso.

- Continui , la prego – disse Goldrake.

- Lei non è semplicemente uno stronzo come gli altri, lei è il loro capo.Mi ha costretto a queste mura perché da sempre mi ritiene un diverso, perché le parole che sottraggo alla sua normalità ottusa, la infastidiscono. Ha forse paura che io possa sottrarle il posto? Stia tranquillo, nessuno le ruberà il piedistallo.

A quel punto il discorso venne rotto da un campanello proveniente dalla porta chiusa dall’interno:era la brutta e logora infermiera.Alzò un dito come a invitare il professore ad avvicinarsi e gli fece visionare dei fogli che portava al petto.Il professore si avvicinò alla donna, borbottò qualcosa e firmò.Il viso si fece cupo e serio, ma con un gesto che pareva a lui consueto fissò il pavimento abbassando la testa e dopo un attimo lo sollevò ricoprendosi d’un nuovo sorriso.

Si voltò nuovamente verso l’infermiera e chiese – ne è sicura?- l’infermiera annuì mordendosi le labbra – va bene. Si prepari - E il professore la congedò.Poi, rivolto al signor Freud, disse:

– mi perdoni, la prego. Prosegua.

Il signor Freud nel frattempo era tornato alla posizione iniziale, le spalle si erano indolenzite a tratti. I calmanti si fecero sentire.

- Il suo piedistallo è così fragile da potersi spezzare in un attimo. Stia molto attento. Lei ha paralizzato dei ribelli qui dentro, ma non ha mai spento la loro sete. Non potranno svolgere la loro attività di divulgatori, ma han lasciato tracce, fatto proseliti. Non morirà con noi ciò che abbiamo prefissato e inciso nelle anime. Ci sarà sempre qualcuno pronto a battersi contro il mondo che lei ha costruito! Lei è uno stronzo come gli altri e odio l’abuso di cui si veste.Freud sembrava aver concluso e per un attimo socchiuse gli occhi dal sonno che lo invase.All’improvviso, gli stessi occhi si sbarrarono ed ebbe un sussulto: da fuori sembrò udirsi uno scoppio e le pareti si mossero. Tornò a richiudere gli occhi come se nulla lo avesse disturbato.

Ma non fece in tempo a compiere il movimento che lo stesso boato divenne più forte e impetuoso. Si andò avanti ancora, allo stesso ritmo.E il professo Goldrake? Quel fottutissimo stronzo?

Rimase seduto, immobile sulla sedia di legno e ferro, ad ascoltare ora le parole del signor Freud, ora i rumori esterni.All’ennesimo scossone le pareti si segnarono nel profondo e parvero stessero per sgretolarsi come nuvole piene di pioggia.Poi disse:

- Caro signor Freud, la guerra è finita. Non dobbiamo più batterci. Per anni ho vissuto seguendo gli schemi che altri imponevano, ascoltando solo gli altri, muovendomi come loro. La mia vita? Una semplice vita omologata e surrogata da strumenti e forme tutte uguali. Le mie mosse sono prevedibili, tutto è scontato. I miei vestiti, i miei bei vestiti, sono identici a quelli dei miei simili. Tutto è divenuto uguale a tutto.

Il tono del professore divenne pacato, semplice, arrendevole.

Il Signor Freud non si capacitava di quanto stava ascoltando da quell’uomo che da sempre era stato suo nemico, ora complice.

I colpi di mortaio si accompagnarono a urla, di gioia e di dolore.

- La guerra è finita. I vincitori? Potrà vederli fuori di qui. È  libero. Vada pure- poi alzò il tono – può andarsene finalmente! Freud ebbe nuova forza nelle braccia e nelle gambe: non tremavano più, non si intorpidirono.

- Se è uno dei vostri giochi , giuro che…

Un botto fortissimo lo interruppe e la porta chiusa a chiave da dentro cadde giù.

Si alzò un gran polverone e la stanza della clinica ne fu invasa da cima a fondo.

Quando il polverone si diradò e l’aspetto divenne meno fosco , il Signor Freud notò qualcosa di nuovo: il professore era sparito, al posto della grata vi era una finestra aperta, un tavolino basso con del cibo sopra (pane , burro e caviale).Dalla nuova porta come da uno specchio entrò un uomo.Si guardò circospetto e fissò Freud.Era vestito come lui, alto quanto lui, gli stessi baffi, il medesimo occhio vitreo: era un altro, identico, Signor Freud.Fece qualche passo e uscì sul davanzale.

Da un lato della strada potè osservare le macerie del Vecchio Mondo, dall’altro, piccoli e grandi Lui adoperarsi in qualcosa: si, c’era stata la rivoluzione!

- Ma che succede? Dove siamo? Chi siete?

- Siamo gli effetti del cambiamento – rispose l’altro Lui. Poi aggiunse – finalmente la guerra è finita. Pare che la resa sia stata firmata all’interno di una vecchia clinica dove stavano rinchiusi i nostri padri fondatori e che quel fottutissimo professore Goldrake, uno stronzo come gli altri, abbia accettato senza colpo ferire.

- Chi altro c’era con lui? – chiese un sorpreso Freud

- Una brutta e logora infermiera , la sua alchimista. Una puttana che somministrava calmanti a destra e a manca. Adesso mangiano la polvere..

Il signor Freud si riempì di luce nuova, fece un giro per le strade , poi volle vedere i cumuli di macerie del Vecchio Mondo.Quando ne fu ad un passo, con tono maestoso ed un sorriso fiero, esclamò:

- Questa è la fine che meritavate. Tutti la stessa sorte. Come fu il vostro vivere.

L'ultima risalita (storia di un mio amico)

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Passato e presente non passano e non tornano. Facile assioma per qualcuno,impossibile pensiero per altri. Dalla montagna più' alta si cade e rialzarsi a volte non e' cosa fattibile. Esiste tuttavia una storia nella storia che cancella tutto cio', che rimuove paletti e pone diversi dubbi nelle menti più' aperte. E' la storia del mio amico Carlo, vittima di una vita che ha scelto ma che non era sua. Partito col piede giusto, si avventuro' in una delle più' grandi e macchinose delle problematiche: vivere come non si può'. Il suo amore per questa donna fu sconfinato dapprima che la conoscesse, un paradosso, lo so, non chiedetevi come, ma era cosi'. Un giorno d'estate, avete presente quando l'afa scalda i sedili delle auto e sedersi dopo dieci minuti e' una cocente delusione? Ecco, quel giorno, proprio quello, penso' bene di ridurre le dosi di metadone che gli erano state prescritte, di testa sua, senza pareri, senza consultazioni. "Non ne posso più' di questa merda!". Torno' a casa, dimenticando nel parcheggio la vecchia carcassa con cui era arrivato. A casa l'aspettava lei, Giovanna, stranamente non strafatta, assuefatta all'attesa. L'attesa del cambiamento. "Domani sara' diverso!",si ripetevano ogni giorno. Con presunzione e metodo pero', armavano siringhe e trafiggevano vene. Stavano bene insieme. Lui, adorava tutto di lei, ma sfuggivano alla realtà' e seguivano un destino farlocco. "Passero' ogni momento della mia vita con te! Ma non lasciarmi". Erano passati 5 mesi dalla scelta inappropriata di Carlo e Giovanna mori' in una notte. Cuore fragile e nessuna speranza. Mori'. Carlo sembro' non esser sorpreso, pensava già' da tempo a quel momento e ne fu assorbito come quando si strizza una spugna bagnata e poi la si strofina su di un liquido, assorbe tutto e diventano una cosa sola, spugna e liquido. Da li a qualche mese se ne sarebbe andato anche Carlo, stesso modo, stesse tempistiche. Adesso vado ogni tanto a trovarli, dietro i grandi e freschi marmi. Un giorno d'agosto di qualche anno fa, faceva molto caldo, non respiravo, il fiato era grosso, le mani sudate, andai al cimitero a recitare qualcosa, forse una preghiera o forse una delle loro canzoni preferite, ma accadde l'imprevisto: il caldo spari', il marmo era ghiaccio, vidi Carlo sopra di me. "Vuoi vedere che ce l'ha fatta, pensai?". Non fini' di pensare che Carlo rispose :" non era la mia vita, ma l'ho indossata, adesso son risalito e non cadrò' mai più' dal monte!". Cosa vi dicevo? Carlo ce l'ha fatta e non sempre e' impossibile...

La solitudine dei posacenere rubati nei bar

 

 

Tutto ebbe inizio con lucide ombre, sollevate da altrettanti passanti. I saldi nelle vetrine, l'afa rigogliosa del mare, il notturno della sua luna. Un giorno insolito. Un giorno di tonfi al cuore e salite ardite. Era l'alba, di quelle che ti baciano in fronte e che accecano la vista. Si alzo' dal divano sul quale non ricordava di essersi addormentato, ma non ci fece caso piu' di tanto. Volse lo sguardo mezzo assonnato verso il terrazzo e vide qualcosa agitarsi sul tavolino: era un foglio di carta fermato dal posacenere del bar cui lo aveva rubato una sera di birra. Sembro' non capire cosa fosse realmente ed entro' in bagno. Rinfresco' i suoi sentieri. Torno' a guardare fuori, ma ancora una volta fece altro. Caffe'. Si sedette sul bordo della finestra che dava sul cortile. Accese la prima sigaretta della giornata e ne fu come disgustato, lui che amava fumare e che detestava smettere. Inizio' a mettere ordine nei condotti neuronali. Un flash lo immobilizzo'. Vide per un attimo un abito bianco, con risvolti d'azzurro e sottili linee che lo attraversavano. L'abito si muoveva su di un corpo non definito, non vedeva le scarpe, non leggeva i suoi occhi, non scrutava le mani, ma ne raccolse la pienezza. Si alzo' dal bordo della finestra e corse verso il divano, si mise a cercar qualcosa, era il segno che le idee erano nuovamente compatte. Prese in mano finalmente quel libro, ne lesse la dedica e, ricordandone il momento, inquadro' la figura che glielo diede. Dal nulla si ritrovo' proiettato nel mondo dei flash. Il clic di uno scatto, i fotogrammi di una pellicola, questi erano quei momenti. Riconobbe finalmente il viso, ne ricostruì' il corpo, ricordo' quel nome. Andò' più' o meno cosi: da qualche anno frequentava tutti i giorni lo stesso posto, beveva il "solito", leggeva poco e s'incazzava spesso. Come da indole parlava con tutti, non tutti lo capivano. Un pomeriggio di neve, in quel posto, entro' Lei, che senza fare rumore, lo abbraccio' e lo invito' ad andare fuori. Senza batter ciglio accetto' e la segui'. Passarono anni, stagioni e 10 agosto senza stelle. Vissero l'uno accanto all'altro. Fin quando non arrivo' ieri sera. Lui e il suo libro sulla pancia, Lei che volle scriverci su. Un liquido rossastro nel vetro e l'immancabile sigaretta. Fecero del sesso, come non mai, mischiarono pelle e pensieri, dolori e passioni. Lei scomparve, lui si sveglio senza un pezzo. Andò' più' meno in questo modo. Ma chi era? Quale nome portava? E la lettera sul tavolino del terrazzo? Usci' finalmente a prender quel foglio. Lascio' cadere il libro come se scottasse. "Mi chiamo Sola, ti conobbi che eri schiavo, ti ho lasciato che eri libero. Non rimanerne mai senza, cercala quando sta per finire: la solitudine". Forse fu normale anche per lui, quel giorno, sentirsi solo.

Nodi Belgi
 

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Sto facendo colazione in un bar, circondato da una marea di parole che non mi infastidiscono. È strano. Il caffè non è buono ma molto caldo. Le persone che mi siedono vicino sono abbastanza cordiali, il cameriere è gay, il proprietario non fa la ricevuta. Gli ho chiesto un waffel , mi ha chiesto cosa ci volessi sopra, ma io non parlo il fiammingo e soprattutto non so come spiegargli che vorrei delle noci e del miele: gliene indico uno nella vetrinetta alle spalle. Fuori fa freddo, passanti interrotti dall'incrocio di altre vite, si distraggono dal loro cammino. Lo noti quando stanno per inciampare o quando urtano il gomito di chi sta arrivando dalla parte opposta. Un po' come alcuni momenti dei nostri giorni, quando prendiamo treni arrivati troppo lunghi o ci lasciamo corrompere da gesti che sembrano veri, come i baci o le parole. Si, i baci e le parole, i peggiori strumenti in mano all'Uomo per occultare la paura d'amare. Quando nacqui io, nella seconda metà dell'ottocento, il bacio era considerato l'antitesi del matrimonio, l'uso corretto delle parole invece , un arte, oratoria eppur divina. Pensare alla distorsione e all'abuso che oggi ne facciamo , rende il cielo cupo e il caffe non scalda più , nemmeno le mani..

di Silenzio e di Sole
 

Il letto, posto al centro della stanza, suddivideva in porzioni statiche e uguali anche le loro vite. Giulia, ritta e costante. Saro,  vivo e trepidante. La notte del sogno di cui narro, la luna si strofinava gli occhi e le stelle guardavano Morfeo entrare a piccoli e morbidi passi nella mente di Saro. Dal lato destro della camera si alzava una luce fioca, proveniente dalla lampada ad olio che doveva far leggere le parole del libro. Un vecchio libro sulle dinamiche della vita, uno di quei mattoncini che Giulia adorava tenersi stretto al petto anche quando si addormentava. Saro non dormiva facilmente e le paure del giorno, le paure del non farcela, lo assillavano ben presto quando intravedeva le coperte e il fine luce. Non prendeva alcuna tisana, nessun sonnifero, preferiva aspettare che il sonno lo avvolgesse, a qualsiasi ora, tanto, diceva, “non ho fretta”. Giulia invece, quasi lontana dal suo uomo, sorrideva e si pacava l'animo scrutando fuori dalla finestra gli alberi delicati, che a suo dire, le mormoravano una lenta nenia ancestrale. Per entrambi, la vita era lì, ogni sera, fra quelle lenzuola al sapore di mandarino e proprio lì, puntuali, si staccavano dai corpi. Il buio li allontanava come naturale conseguenza della simbiosi di cui si nutrivano le ore del giorno. Sembrava strano o cattivo eseguire la danza della lontananza, ma per loro, Saro e Giulia, era la norma, un quieto vivere armonico il loro amore. Tuttavia mi domando come posso, definire amore, un sentimento che cresce al mattino, si alimenta a pranzo, si illumina la sera e separa dopo cena? Gli equilibri sono strani. Gli equilibri dettano virtù e stranezze. Neppure il cielo potrà mai capire. L'Amore di Saro era univoco, tutto per Giulia. L'Amore di Lei era libero, solo per Saro. Ricordo che un giorno, tra l'alba e la sveglia, un piccolo raggio di sole bussò sorpreso alla finestra e Saro stropicciò gli occhi, Giulia si coprì il viso a  mezza mano. Quando entrò il secondo e poi gli altri, non fu stupore, ma sorrisi dolcissimi. Si voltarono e si guardarono come nuovi, pensarono ad un gesto piovuto dal cielo, mentre le previsioni annunciavano pioggia. Saro si alzò per primo, si recò in cucina e preparò un caffe, poi aprí la porta del terrazzo e strappò un fiore da un ramo, non sapeva che tipo di fiore fosse. Prese il vassoio di legno sopra il frigo, vi poggiò sopra il necessario ed entrò in camera, per regalare alla sua Giulia un giorno profumato di fiori sconosciuti. Quando fu interrotta dal gesto cordiale, Saro sorrise. D'un sorriso che riempì la stanza, il quartiere, la città, l'universo intero di Saro e di Giulia. Tenera e assonnata sfilò la mano da sotto il cuscino e con un gesto altrettanto lento bramò quel viso barbuto e raggiante. Si fece forza sulle braccia e lo baciò. Il caffe intanto, decise di aspettare. Venne sera e la cena si annaffiò di risa, con loro, il bianco d'uva pregiata. Fu subito bellezza e i rumori da fuori non riuscirono ad entrare. Stava per raggiungerli l'ora dell'addio temporaneo, della spartizione del tempo della notte. Entrando in camera eseguirono i rituali della comoda preparazione: Saro cercava gli occhiali, Giulia, senza freno, li scorse sul pavimento, si abbassò e glieli pose sul naso. Era strana quella notte. Qualcosa era cambiato, gli occhi dei due sapevano di novità. Si misero a letto, separati dal solito linguaggio degli anni: il silenzio. Saro prese sonno subito.  Giulia non riusciva a leggere. Saro cominciò a dimenarsi come si fa con un sogno, la fronte sudava e sul viso si stamparono sorrisi d'altri tempi. Per la prima volta in quella circostanza, Giulia fu incuriosita e alzò la testa per capire cosa stesse accadendo dall'altra parte, fu un attimo e tornò al suo posto. Passarono le ore, sempre allo stesso ritmo, quando improvviso, Saro, aprì gli occhi. La stanza era ricoperta di fiori gialli dalla natura incerta, a tratti cambiavano colore, a tratti emanavano fragranze soavi. Giulia era sparita. Saro fu sconvolto ma non ebbe paura. Come un sole ricomparve, era sopra di Lui, aleggiava tra la veste Bianca di seta e un rito di poesia. Quando fu ad un palmo dal toccarlo con le labbra, si fece silenzio, di quel silenzio salmastro e tenue, come un mare incensato da onde, sferrò quel che bacio che descrivere mai potrò.

Si staccò per un attimo e disse:" il silenzio non ha parole. Il mio Amore dice tutto".

Riprese a baciarlo e la notte, rumorosa, si consumò lentamente.

 

Caramelle gommose
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Tutto è cambiato quando percorrendo la strada fuori dal locale per raggiungere l'auto, incontrai un sorriso familiare di donna. Lei non guardava e continuava a fumare. Io sbandavo e la notte non voleva farmi compagnia. Ero un amico scomodo. Un amico confuso. Uno di quelli che parla molto e resta vago, in attesa dello sguardo da rubare o del bicchiere da bere. Chi evitava la notte per fuggire al sonno e alle domande che porta in seno, come me si rifugiava spesso in quel posto. Un posto pieno e basso. Legno a destra e sopra i tetti. Legno in basso. Altro legno. Tre finestre alla olandese sopra il fiume, davano sulla strada. Io mi avvicinavo spesso alle finestre. Guardavo fuori sperando. Guardavo fuori. L'ultima volta che mi guardai dentro non ci trovai nulla. Il mio passo non faceva mai una piega quando la sera barcollava. Breve e disinvolta mi venne incontro. Non mi riconobbe subito. Nemmeno io.  E la birra non era male. Ci pensai il tempo del non pensiero e mi eressi davanti a lei con un sorriso larghissimo, poi, la fissai. Sembravo un lampione appena acceso al tramonto. Continuavo a fissarla senza tregua. L'espressione del suo viso divenne nuda e potei quasi entrarle dentro. Nel frattempo un amico, vigliaccamente mi tirava e trascinava via. Non mi importava stesse bevendo e male. Non mi fregava di quel cazzone che stava interrompendo le dinamiche d'una sera scorrevole e di legno. Scrollai la sua mano dalla mia con un gesto brusco e lo strattonai sulla panca che fuori si era palesata come un miraggio. -Vaffanculo!. E la presi per un braccio allontanandomi dal piccolo caos. Pronunciò il mio nome e ci mise un punto esclamativo. Io non parlavo. Piuttosto ridevo. Forse. Era un sorriso da buco nero, molle e vero. - Quanti anni saranno passati dalla prima volta?. Probabilmente mi chiese o lo feci io. Non ha importanza, come allora. Era appena arrivata fra le mie cosce in silenzio,la donna più ricca di sesso che avevo immaginato fino ad allora. Immaginato quanto sperato. Mi diede solo un carico ormonale, flebile come le paure di esser titubante.  Lei era carina, di quelle donne che poche ne vedevo e molto più ne cercavo. Da sconquassato e malconcio passai al romantico arrogante. Biascicavo di piacere. Se ne andò con la promessa di richiamarmi: il solito.  Richiamò! Compivo gli anni mentre fumavo piegato dal calore di quel giorno. Era luglio. Un luglio nuovo. Stavo sperando quel che chiese e mi lanciai in una risposta al gusto di paraffina:"si!". Quando arrivai sotto casa sua trovai il tempo di scrivere qualcosa su un foglio e lanciai la penna in fretta non appena sentì aprire lo sportello. Non sembrava strano come fuori dal locale e l'abbracciai. Seduto su una sedia comoda come un water dopo pranzo, aspettavo le sue parole e ordinavo da bere. Non mi spiegavo i perché fossi li, con lei che non vedevo da dieci anni, con me che mi cercavo da una vita. Chi se ne frega, mi rispondevo in silenzio anche se non ascoltavo le domande. D'un tratto mi ritrovai fuori e  con un erezione imbevuta di Martini. Pensai d'essermi pisciato addosso. Fumavo e guardavo attorno. Anche lei mi stava accanto. Sembravamo soli. E soli ci incamminammo verso un appartamento che conosceva ma che io neppure speravo quella sera così buona. Mi partì un bacio sulla guancia,quasi vicino al labbro. Sorrise e lo mise da parte. Lo rinchiuse nella piccola pochette dalla quale ora tirava fuori le chiavi. Aprì silenziosame e mi fece segno d'entrare. La seguì e vidi il suo corpicino avventarsi sul frigo. Sapeva di quanto fossi bevitore noir. Era china, cercava qualcosa che aveva davanti agli occhi, sussurrava piccole parole e sembrava sforzarsi di non crollare. Rimasi pochi attimi in piedi dietro di lei e senza inibizione l'afferrai per le spalle, delicatamente le girai il volto contro il mio, passò poco più d'un secondo e le infilai, ancora delicatamente, la mia lingua in bocca. (Fottetevi quando penserete io sia stato  volgare, ma fu amorevole e sublime infilarle la lingua in bocca). Il divano era lontanissimo e l'alcool lo spingeva sempre più in là. Riuscì a spostare la sedia incastrata sotto un tavolo (del cazzo! immaginate adesso l'ira verso quel tavolo) e mi sedetti, si sfilò il jeans serratissimo e ci incastrammo. Le braccia divennero cinture che non lasciavano segno, le labbra, caramelle gommose da mordere, il mio pene la legava al piacere e la sua schiena si faceva attraversare dalle dita. Consumammo la voglia e col sesso e col rum finimmo la scorta di quella notte. Il silenzio che ascoltavo mentre vomitavo nel bagno di fianco alla tv accesa, mi tranquillizzava, mi rendeva sobrio. Era il suo turno adesso, io frugavo altro da bere. Quando il divano si avvicinò mi ritrovai i suoi occhi perplessi sulla coscia nuda. Mi chiesi perché fossi ancora lì e dove fossero finite le mie Marlboro. Raccolsi i vestiti con le mani da rastrello stanco. La porta si sdoppiava e iniziò a muoversi. Non sono sicuro d'aver fatto come i gentiluomini d'un tempo, salutando e ringraziando. Ricordo solo quella donna, breve e silenziosa. Per quella notte, il mio bicchiere preferito divenne lei. 

Peccato!

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La lingua di T. era la lingua più buona che avessi mai assaggiato.

Esplosiva, impulsiva,potente.

Ogni volta che decideva di inserirsi nella mia bocca sembrava avere una propulsione spropositata.

Si contorceva da destra a sinistra, poi si ritraeva come a caricarne la spinta, improvvisa si fiondava a colpire la mia.

Godevo e mi eccitavo, tanto che non riuscivo ad andare oltre quel gesto, aspiravo solo al movimento dirompente.

Le mani rimanevano ferme per un po’, a tratti poi sfiorano le sue cosce rinchiuse fra jeans morbidissimi, sfioravano con apprensione il seno.

Era un punto massimo d’eccitazione in cui venivo prima nella mente poi fra i sensi.

La terra tremava quando la sentivo avvicinarsi: in me s’aprivano mari e si agitavano onde.

Che lingua!

Non ne avevo mai ascoltate così.

Anche adesso che scrivo mi chiedo quando potrò mai riassaggiarla e il piacere avvolge  ogni immaginazione .

L’idea mi  fa trasudare desiderio, imprecare contro la distanza.

Non ho bisogno d’altro mi dico, solo che ritorni, come quel proiettile che uscì dalla canna del fucile, quando al suo stupido rifiuto, le esplosi contro.

Peccato! Non desideravo altro che la sua lingua.

Bar Collante

​

Me ne stavo nel mio tranquillo buio.

Odiavo il rumore. Qualsiasi tipo di rumore.

Vivevo i miei giorni in silenzi assordanti e sommerso da gente di merda.

Stavo bene.

Non avevo per nulla voglia di veder donne o uomini che mi compiacessero, che leggessero ciò che avevo scritto.

Erano momenti pieni di parole, ne ero immerso fino al culo, ogni giorno trattavo il mio dolore con la penna, ogni giorno mostravo qualcosa che appagava e svuotava il senso di malessere  di qualcun altro.

Per questo piacevo. Per questo mi odiavo.

  • Ma quando penserò a salvarmi la pelle?-

Mille i tentativi, ogni volta vani e con un bicchiere pieno di birra o una scorta di Negroni.

Una sera mi ritrovai a bere al bancone di un pub grande come un corridoio anni sessanta.

Mi accompagnava un amico meno stupido di me.

Di fronte avevo una gran fica.

Non era sola, ma per tutta la sera la guardai e le scrutai la schiena, la immaginavo distesa a pancia in giù , mentre le sfilavo i jeans e le mordevo la pelle.

Bevvi il primo sorso e mi sentì subito forte, quasi crudele.

Non mi piacevano i legami d’alcun genere.

Poggiai il bicchiere su una di quelle tovagliette in tessuto idrorepellente, tutta colorata, chiesi di riempire con lo stesso.

Cominciava lo show.

Me ne sbattevo del buon costume in quegli attimi, forzato e dettato dall'inconscio tirai fuori quel che sapevo.

Dalla bocca svolazzarono pensieri fieri, assemblati con dovere di cronaca, tutti stavano ad ascoltare, qualcuno mi offriva da bere.

Erano i giorni dell’uscita del mio primo libro, non ne ero cosciente, non gli davo alcun peso.

Chi era attorno rimaneva assorto nelle parole leggiadre.

  • Collaboriamo. Io sono un pittore - disse quello dietro il bancone.

  • Io ti voglio bene. E adoro ciò che dici - continuò l’altro omone dalla cresta colorata.

Feci per concludere il mio “giro” e bevvi il terzo bicchiere. Il sapore rimaneva forte e ghiacciato.

Strinsi la mano di un ragazzo che mi aveva ascoltato per tutto il tempo senza mai intervenire, poi mi fece i complimenti.

  • Per quale cazzo di motivo lo hai fatto?- mi riferivo ai complimenti.

Non disse nulla e sorrise, poi mi abbracciò.

Lo guardai stordito e mi trascinai in auto.

La gran fica che prima era di fronte, adesso fumava.

Al mio incedere lento e barcollante si avvicinò, chiese di vederci dietro la farmacia.

Non capivo. Non sapevo.

Pragmatico mi precipitai dietro la farmacia. 

Scesi di corsa e per quello che potevo saperne di riuscire a correre in quello stato di assenza , ci abbracciammo per quaranta secondi.

Da qualche parte avevo letto che l’efficacia d’un abbraccio stava in quel tempo.

La sentì con tutto il suo corpo (e che corpo).

Mi entrò dentro, spianò strade e corridoi di piacere.

  • Vengo. Da te –

Le suggerì con imponenza.

Edith

​

Alzati! Alzati!! Devi andare via!!-

 

Non si muoveva, forse era davvero morta stavolta, forse l’aspirina aveva fatto il suo effetto.

 

- Porca troia! – pensavo – a furia di giocare con quella merda c’è rimasta sotto-

 

Edith aveva trentanove anni, io trentaquattro.

Eravamo come dei ragazzini, pieni di merda alle spalle.

Non avevo mai voglia di parlarne con lei per paura di sentirne sventolare l’odore della sua.

Non mi fregava un cazzo del mio dolore vecchio, stantio, puzzolente come un pollaio pieno di carcasse.

Badavo al suo. Mi occupavo a pieno regime del suo.

Mi ruppi i coglioni per qualche tempo dello stato in cui vivevo e alle porte d’ogni mattino mi svegliavo col profumo del rimorso.

A fianco trovavo il suo corpo seminudo, coi vestiti che le avevo sfilato nella notte, appallottolati da qualche parte nella stanza.

 

- Fottimi!! – ed io la fottevo.

 

Poi tornavo in essere, dall’assenza d’un po’..e fottevo me stesso.

Mi avvicinai al suo orecchio con gli occhi tutti sbronzi, misi una mano sotto la coperta e trovai le sue all’altezza del sesso. Provai a muoverle sperando potessimo dar seguito a quello che era inziato la sera prima:

 

- Ma che cazzo! Sei morta? Vuoi alzarti? –

 

Nessun cenno.

Ma ero sicuro fosse lì ad ascoltarmi: lo faceva spesso di terrorizzarmi coi suoi maledettissimi giochi.

- Puttana Eva! Tornatene da dove sei venuta – le urlai

 

Mi misi a piangere d’improvviso, come si fa quando non trovi la via di casa e la notte, buia, assassina , ti percuote l’anima.

Tenni le mani giunte fra le cosce, a cercar compassione e calore, poi le portai a coprirmi le orecchie come per non ascoltare il silenzio invadente di quegli attimi.

Sentì un tonfo. Dopo un attimo vidi qualcosa pendere da un lato del letto. La luce era buia. Sperai che la persiana si aprisse. Non accadde e mi alzai. Divenni luce e mi sostituii alla persiana.

Era il braccio di Edith, che adesso pareva il manico dello stesso ombrello che qualche giorno prima avevamo portato a casa e che lei aveva detto di voler “provare” per masturbarsi  ed eccitarmi.

A terra, il suo stupido libro. Erano tutti stupidi i suoi libri. Leggeva per sete.

Cazzo! Si stava rianimando.

Volevo darle uno schiaffo: mi ero cagato sotto dalla paura!

E non avevo nemmeno un bicchiere pieno. La lascia stare a giacere sul letto, andai in cucina, mi feci un caffe e mi sfilai  i pantaloni, rientrai e la vidi con le ginocchia al petto, il libro sulle ginocchia, le spalle al muro e lo sguardo concentrato.

Ero tra il morderle un capezzolo e il tornare a fotterla.

Passarono diverse ore, mi riposai al suo fianco senza mai sfiorarla, neppure con lo sguardo.

Pensavo se fosse stato meglio  non averla vista morire o se alla fine, era meglio che l’aspirina avesse fatto il suo affetto. Restai col dubbio.

Ogni mattino trovo un libro ai piedi del letto a riposare.

Tutto è diventato normale, tutto ha il sapore del folle, anche il dolore resta mio, quando m’accorgo d’averlo succhiato dal suo.

Un terzo di colore

​

Il disordine impazzava quella sera.

Fiumi di robaccia fatta a pezzi per tutta la camera.

Una ragazza ballava e si dimenava mezza nuda sul tavolo.

Ai lati si potevano notare due ragazzotti, molto più piccoli e innocenti di lei. Avevo sentito parlare di Eveline da mio cugino che evidentemente la conosceva bene.

-Guarda qui- mi invitò.

E mi fece vedere le foto di lei, mentre ubriaca o fatta, sdraiava su un letto, ricoperta di uomini e altra voglia. Era quello un periodo in cui mi circondavo di donne strane, ognuna indipendente e vuota.

Vivevo da solo, in un sputo di posto.

Avevo ricoperto le pareti di piccole fotografie, ogni angolo era occupato, non vi era un solo, fottuto angolo, su cui ci si potesse passare un dito.

Vivevo in una camera oscura. Raccolsi le fotografie, ricordo, da due cassetti stracolmi, accumulate negli anni. Ne feci una cernita e tenni le più brutte, quelle che tutti scarterebbero.

-Eveline, io non sono tutti!- le ricordai quando venne a trovarmi -Ne ho le palle piene d’esser pazzo, silenzioso. Voglio farlo sapere a tutti che son pazzo. Tutti devono smettere di compiacermi. So farmi male da solo, e lo so far bene-.

Preparai un terzo d’ogni liquido e mischiai, dal basso verso l’alto.

-Vuoi? Si, grazie- disse Eveline

 -Osservane il colore. Ammira. Non è rosso, è il colore che io decido di donargli- dissi su tutte le inutili furie.

Aspettavo la sua conferma.

Desideravo quella cazzo di conferma: non era rosso! Era il colore che io avevo deciso di dargli! ( Non era che rosso, un maledettissimo rosso..)

La buttai fuori, come si fa con una scarpa dalla finestra e con l’arroganza tipica d’un pazzo.

Le scrissi un attimo dopo di tornare quando ne avesse avuto voglia.

Restai tutta la notte a guardare il bicchiere, poi ne preparai altri sei e li bevvi senza fiato: i colori che intravedevo erano una scala cromatica fluorescente.

Fumai senza sosta. Fremevo d’irrisolto. Cominciai a grattarmi la testa e mi scavai un mezzo solco, poi passai alle cosce. Sgorgò del sangue, mi fiondai in bagno e scambiai l’alcool con l’ammoniaca, mi ustionai e crollai sul pavimento.

Il mattino dopo riuscivo ad aprire un solo occhio, l’altro bruciava. Lo avevo strofinato con le dite imbevute d’ammoniaca.

Cazzo se bruciava!

Cercai il telefono nella confusione della mente. Chiamai Michael e gli chiesi di portarmi un quaderno, dei fogli bianchi e del vermouth, l’altro ancora gocciolava sulle piastrelle.

La paura di restare senza un terzo d’ingrediente divenne incontrollabile. Urlai.

Michael si presentò con tutto quello che avevo chiesto.

-Quanto ti devo?- chiesi con un filo stridulo di voce e sapendo di non aver un soldo.

-Lascia stare- rispose Michael. Poi continuò- ma che cazzo hai fatto all’occhio?-

- Niente. Sarà che ho dormito male-

Non credette ad una sola parola e insistette:

- Sei pazzo a voler restare qui con quell’occhio e quel sangue. Non fare la testa di cazzo, alza il culo e andiamo!-

Gli urali qualcosa.

Michael bestemmiò e lascio la stanza.

Chiuse la porta con un gesto inconsueto e la fragile dimora emise un suono sproporzionato. Con qualche briciolo di forza mi alzai e mi scaraventai sul divano: tirai fuori l’ingrediente dalla busta! Il rosso che mancava! Mi dissi.

Diedi un calcio alla bottiglia gocciolante che giaceva a terra, era rotta e mi infilzai un vetro sotto la pianta del piede. Dolore stupido e inutile. Nulla. Rosso. Corsa al colore magico.

Aprì le due ante sopra la tv e presi tre dosatori che qualche sera prima avevo scambiato per una poesia su commissione ad una barista arrivista. Li inforcai sopra i tre colli , tenni il gin in una mano, il vermouth e il Martini nell’altra, versai.

Versai come orgasmo. Pieno di me salivo sul trono.

Osservai attentamente il post rituale: mi accorsi che era un tenue, un rosso tenue, proprio come desideravo. Chiamai Eveline:

-Vieni da me. Devo farti vedere una cosa-

Dopo un ora mi raggiunse e mi osservò palpitante nel  “laboratorio” che avevo costruito, immobile ad osservare lo spettacolo, poi dissi:

-Finalmente! Osserva. È questo ciò che so fare!-

-Ma tu sai fare altro: sai scrivere. Non esser pazzo. Ti prego-

- Eveline, io non scrivere e son pazzo. Ma per fortuna so anche scegliere i colori-

Ce ne andammo in camera, finimmo di darci sesso.

Un posto chiamato ME

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Dodici tavolini, messi in cerchio, quasi a toccarsi, le sedie ordinate sotto di ognuno, che per sedersi bisognava sfilarle come cassetti da un mobile in corridoio. Un uomo al centro, in piedi, silenzio attorno. Duplicava le parole, reggeva lo sguardo. Ad ogni teoria seguiva un assioma o un paradigma sul tempo, lo stesso tempo che odiava, che ne rifletteva l'ombra dal finestrone in alto. Studió quasi una vita per elaborare il pensiero. Assorbì la paura dell'incomprensione, si lasció andare alla paura, ma spalle forti e palle quadrate. Quello che non ero io, ascoltatore mutante ed inerme, che da quel professore, alter ego possibile d'ognuno, mi lasciavo cullare, poi inebriare, poi ferire. I passi che mi separavano dall'aula rappresentavano l'antitesi della cura. Sapevo che entrando avrei trovato riparo, forse qualche schiaffo, qualche strano sorriso, ma un sorriso. Si, un riparo, dicevo. Fuori pioveva da anni. Gli ombrelli eran pieni di piccoli forellini, ognuno filtrava gocce pesantissime, tutte insieme bagnavano e ammalavano il mio corpo. Ma lui era lì, professore di vita, accordatore di note liete, passista di alte cime. Si chiamava come me. Forse anche questo mi legava. Non lo affrontai mai, non ebbi il coraggio di portarlo dalla mia parte a fargli vedere i luoghi oscuri in cui mi sedevo a pensare. Avrei voluto condurlo fino alla statua di quel condottiero che come me, aveva qualcosa da difendere, forse niente da lasciare, ma un destino da scrivere. Forse, una volta gli parlai, ho un vago ricordo. Lo incontrai nei panni dell'uomo, quello che forgiava costrutti del giorno dopo, quasi non mi accorsi, ebbi un attimo di sereno:"posso darle una cosa?", "per me?" , "Per Lei ho raccolto questi, sono i pezzettini d'ombrello che perdo ogni giorno, li unisca e ne faccia uno solo, uno nuovo, per me". A quel punto, l'animo mio, strinse le mani  e  si diradó fra la nebbia.

Romanzo micidiale

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Giovedi. Di settembre. Non si vedeva luna e pioveva. Lanciavo sigarette ancora accese come sempre. In piedi sul balcone, con quel palazzo che non voleva andar via. Si, quello di fronte, un vecchio palazzo fatto di vecchio cemento, con otto finestre, tutte diverse, tre balconi e due uffici. Non sopportavo mi stesse davanti quando sporgevo dal mio. Demenze dettate dal tempo. Chiudevo il grande finestrone in maniera ormai meccanica, quasi non mi accorgevo dei tre passi che percorrevo per rientrare in camera da letto. I cuscini erano a destra, vicino l'anta di sinistra. Poggiavo ancora l'accendino sopra il pacchetto di sigarette per non far rumore, anzi, per non scoltare quella specie di tonfo, seppur lieve. Di solito fumavo la notte, mentre scrivevo e non mi piaceva farlo al chiuso. Quel giovedi mi rassegnai all'idea di non riuscire a prender la penna e a buttar giu' due righe. Era quello, il periodo in cui, andavo a dormire tardi, molto tardi.

Il criterio per cui la conobbi e' ancora un mistero. Provai a domandarmelo spesso ma l'esito fu lo stesso. Qualche volta provai anche a non pensarci, ma con scarso rimedio al mio viverlo male. Era poco piu' alta di una carezza, mi teneva le mani con sufficienza, baciava i miei pensieri con spontaneità' , tratteneva il fiato quando doveva respirarmi. Era cio' che forse non avrei voluto o non mi sarei aspettato, cio' che rilegavo come "non potra' esser cosí", ma fu puntuale all'appuntamento. Prese il libro che mi aveva comprato. Mi fece trovare il drink preferito. Mi offri' una sigaretta. La notte passo' e non ricordo cos'altro accadde. Continuammo a vederci con cadenza settimanale.

- "ci vediamo mercoledi sera qui da me, ma non usciamo, perche' posso andare al lavoro tardi"

- "va bene, ma non potremmo andare a prendere una birra?"

La sua vita fino ad allora era stata con un altro uomo. Aveva condiviso un matrimonio, una casa, un gatto e forse un amore, tutto suo. Indivisibile come memoria divenne il legame con Lei. Mi fece paura fin da subito ma non me ne curai e mi lasciai andare. Si, lo ammetto, ero cosciente delle botte che avrei preso da questa storia, questa relazione in cui non credevo e dalla quale ero convinto non se ne potesse uscire se non con le ossa rotte.

Ma era bella. Mi lasciavo conquistare. Era semplicemente Lei, come la parola che manca ad un bel racconto. Io la trovai e per questo cominciai a scrivere.

Passarono altri mercoledi, che da li a qualche settimana divennero giovedi, poi sabato. Non fu piu' una volta ogni sette giorni.

Non che la mia vita o i miei percorsi di allora fossero stati sereni. Passai anch'io un pezzo di vita con un'altra donna. Circa dieci anni di intenso. Poi, come nelle piu' belle storie d'amore, tutto svanì in un bicchiere, finí come il Negroni che stavi bevendo poco prima e che tracanni sapendo che puoi chiederne un altro, diverso da quello pero', perche' non sarà mai un terzo esatto d'ogni ingrediente.

Brevi vite, dunque, durate piu' o meno una decade, che adesso si guardavano negli occhi e come di fronte ad un bivio si chiedevano che strada prendere.

Non era cosi' esplicita la richiesta, almeno da parte sua.

-"non ho bisogno di domandarmi a cosa vado incontro, so di certo cosa ho avuto e farsi domande adesso non serve. Viviamola con la giusta leggerezza"

Non ero del tutto d'accordo, ma feci finta d'accettare il compromesso. Almeno, quella volta. Era solo l'inizio, era solo qualcosa in cui credevo poco, mi ripetevo.

Il mio pensare, diceva, era troppo. Troppo invadente in quel Noi che poteva nascere ma non sfioriva. Se da un lato correggevo (provavo a farlo) gli errori d'un tempo, dall'altro mi ci ritrovavo immerso come in un mare senza salvagente. Ed io non so nemmeno nuotare!

I giorni trascorsero con trepidazione, mai sereni davvero. Alternavo paturnie da dieci minuti ad attimi d'intensa passione. E che passione! Iniziammo a far l'amore. Come se non bastasse mai.

-"Parlami. Non dormire adesso. Parlami". La mia supplica.

- "Cosa vorresti sentirti dire? Sembra che ti aspetti sempre qualcosa da me che non so o non posso darti". La sua sincera, gelida risposta.

Un rapporto fatto di richieste. Una stranezza cui ero abituato.

Da sempre (o quasi), in effetti, legarmi ad un'altra persona era stato un continuo averne bisogno quando lei era lontana. Un po' contorto, lo so. Era come se avendola tutta per me, fossi appagato, anche per il "dopo", quando se ne sarebbe stata per un po' con la sua vita. Ma non ero davvero appagato. Cercavo e scrutavo nei meandri del quotidiano, qualcosa che mi desse fiducia, chiedevo ancora di Lei. Ma non poteva esser sempre presente, non era normale se non in una vita convolata a nozze.

No, non era nemmeno questo cio' che desideravo.

Altre settimane, altri giorni insieme. Costruiti ed evoluti in maniera inaspettata.

Lei piu' vicina, io sempre piu' paranoico.

Cosciente di cio' che non avrei voluto, ma soprattutto di cio' che volevo, mi allontanai. Forse in maniera brusca, irruenta. Messaggi d'addio come se un domani non sarebbe mai giunto.

Non mi piaceva bere per dimenticare, mi piaceva bere.

Un venerdì pomeriggio chiamai un amico e sulla scia dello sparito entusiasmo nel vivere con "leggerezza" come chiedeva, lo invitai ad uscire. Avevo quel sano bisogno di parlare, di lanciare in mare le negatività opprimenti. Io presi il solito, lui un Long Island. Si lamento' che nel suo avessero esagerato con la Coca Cola e in effetti non potevo dargli torto. Il mio Negroni non era male. Non mise nemmeno la cannuccia quando lo servì!

Iniziai a raccontare di come ero arrivato a quel punto.

Lui mi ascoltava, credo. Provava ad interrompere l'incedere del mio discorso con i suoi pareri, ed io, stranamente, li ascoltai con interesse. Non che fossi un cattivo orecchio di fronte agli amici, non lo sono mai stato, ma in quel momento essere interrotti avrebbe potuto darmi fastidio, quella sera no.

Sfogo avvenuto. Piu' leggero mi sentì.

Altri giorni, altri attimi, consapevole che pezzi di me stavano staccandosi da lei.

Pensavo..

Non mi feci sentire, fu lei a cercarmi. Non esitai, risposi subito. Facevo finta d'esser risoluto, un po' fascista (come amava definirmi). Non aspettavo altro. Andammo avanti un po', discutemmo ancora di noi, delle birre da bere, del viaggio, quel viaggio che divenne una scusa. Sembrava esser tornato tutto normale, lo divenne. Fu normale vivere tra i miei alti e bassi, lei che si avvicinava alla sera e quasi spariva al mattino. Normale, come due che si cercano e sanno dove trovarsi.

Non so quanto tempo e' passato da quel giovedi , ma siamo ancora alla ricerca di un equilibrio spontaneo, tra l'incessante volersi e lo stupido tormentarsi. Io provo a dar forma alle mie espressioni piu' belle, lei, ancora scompare al mattino....

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